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Una prospettiva evolutiva

Ci sono stati molti tentativi di identificare comportamenti che distinguono in modo affidabile la nostra specie, Homo sapiens, dai nostri cugini viventi più vicini. Le attività attribuite, dalla creazione di strumenti all’avere una teoria della mente e dell’empatia, sono state respinte, poiché le osservazioni di antropologi ed etnologi continuano a sottolineare somiglianze piuttosto che differenze che ci collocano all’interno della grande catena di esseri. Non ci possono essere dubbi sul maggiore sviluppo dei nostri attributi cognitivi, strettamente legati agli sviluppi evolutivi del nostro cervello, sia in termini di dimensioni che di struttura. Il bipedismo, l’uso del fuoco, lo sviluppo di una memoria di lavoro efficace e la nostra comunicazione efficiente del linguaggio vocale sono emersi da questi adattamenti genetico–ambientali per diversi milioni di anni (Pasternak, 2007).

Due caratteristiche del nostro mondo che sono universali e probabilmente sono state una caratteristica di uno sviluppo evolutivo precedente sono la nostra capacità di creare e rispondere alla musica e di ballare al ritmo del tempo.

Da qualche parte lungo la via evolutiva, i nostri antenati, con un linguaggio molto limitato ma con una notevole espressione emotiva, iniziarono ad articolare e gesticolare i sentimenti: la denotazione prima della connotazione. Ma, come ha osservato la filosofa Susanne Langer, “Il tipo più sviluppato di tale semantica puramente connotativa è la musica” (Langer, 1951, p. 93). In altre parole, il significato nella musica ci è venuto prima del significato dato dalle parole.

L’orecchio medio dei mammiferi si è sviluppato dalle ossa mascellari dei rettili precedenti e trasporta il suono solo a frequenze specifiche. È naturalmente in sintonia con il suono della voce umana, anche se ha una gamma maggiore di quella richiesta per la parola. Inoltre, la banda di frequenza che le madri usano per cantare ai loro bambini, e il cosiddetto discorso motherese o infantile, con intonazione e ritmo esagerati, corrisponde a quello che i compositori hanno tradizionalmente usato nelle loro melodie. Allo stesso modo in cui esiste un periodo sensibile limitato in cui il bambino può imparare la lingua e imparare a rispondere alla lingua parlata, ci deve essere una fase simile di sviluppo del cervello per l’incorporazione della musica.

Una delle differenze tra i cervelli sviluppati dell’Homo sapiens e quelli delle grandi scimmie è l’aumento dell’area assegnata all’elaborazione delle informazioni uditive. Quindi, in altri primati la dimensione della corteccia visiva si correla bene con la dimensione del cervello, ma nell’Homo sapiens è più piccola. Al contrario, si sono verificati aumenti di dimensioni altrove nel cervello umano, in particolare nei lobi temporali, in particolare nell’area dorsale che si riferisce alla ricezione uditiva del discorso. L’espansione delle cortecce uditive primarie e di associazione e le loro connessioni, associate all’aumento delle dimensioni del cervelletto e delle aree della corteccia prefrontale e premotoria collegate attraverso le strutture dei gangli della base, ha preannunciato uno spostamento verso un’estetica basata sul suono e sulle capacità di intrappolare gli input ritmici esterni. Il primo strumento musicale usato dai nostri antenati era la voce. L’orecchio è sempre aperto e, a differenza della visione e degli occhi o dello sguardo, il suono non può essere facilmente evitato. Dal battito ritmico all’interno e con il corpo della madre per il feto e il neonato, al primitivo battito a tamburo di bastoni su legno e battito delle mani dei nostri antenati proto-parlanti adolescenti e adulti, il bambino in crescita è circondato e risponde al ritmo. Ma, come Langer (1951, p. 93) messo, ‘essendo più variabile del tamburo, voci presto fatto modelli e le lunghe melodie accattivanti di canzone primitiva divenne una parte della celebrazione comunitaria’. Un certo sostegno a queste idee viene dal lavoro di Mithen, che ha sostenuto che la lingua parlata e la musica si sono evolute da una proto-lingua, una lingua musi che derivava dalle chiamate dei primati ed era usata dai Neanderthal; era emotiva ma senza parole come le conosciamo (Mithen, 2005).

Il suggerimento è che il nostro linguaggio di oggi è emerso attraverso un proto-linguaggio, guidato dal gesto, incorniciato dalla musicalità e eseguito dalla flessibilità che si è accumulata con gli sviluppi anatomici espansi, non solo del cervello, ma anche della coordinazione dei nostri muscoli facciali, faringei e laringei. Nello stesso periodo (con una precisione di molte migliaia di anni), il cervello bicamerale, pur rimanendo bipartito, con i due emisferi cerebrali cooperanti che coordinano la vita per l’individuo in coesione con l’ambiente circostante, divenne diversamente equilibrato per quanto riguarda le funzioni dei due lati: puntamento e proposizione (a sinistra) anziché sollecitazione e desiderio (a destra) (Trimble, 2012).

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